IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 3444 del 2012, proposto da:  A.R.  rappresentato  e
difeso dall'avv. Antonio Nichil, con domicilio  eletto  presso  Marco
Gardin in Roma, via Laura Mantegazza, 24; 
    Contro Ministero della Difesa,  Comando  Generale  dell'Arma  dei
Carabinieri, rappresentati e difesi  dall'Avvocatura  Generale  dello
Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12; 
    Per l'annullamento del  decreto  del  Ministero  della  Difesa  -
Direzione generale per personale militare a firma del  Capo  del  III
Reparto 0061/111-7/2012 del 3 febbraio 2012  notificato  in  data  17
febbraio 2012 con il quale viene disposta a decorrere dal 10  gennaio
2012 la perdita del grado ai sensi degli articoli 866, comma primo, e
867, comma quinto, del decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66 e per
l'effetto la  cessazione  dal  servizio  permanente  con  conseguente
iscrizione d'ufficio nel ruolo dei militari di  truppa  dell'Esercito
italiano; 
    nonche' di ogni  altro  atto  presupposto,  connesso  o  comunque
conseguenziale. 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visti gli atti di costituzione in  giudizio  di  Ministero  della
Difesa e del Comando Generale dell'Arma dei Carabinieri; 
    Relatore nell'udienza pubblica del giorno  14  novembre  2012  il
dott.  Domenico  Landi  e  uditi  per  le  parti  i  difensori   come
specificato nel verbale; 
    Con atto notificato il 17 luglio 2012, depositato nei termini, il
sig. R.A. ha chiesto l'annullamento, previa sospensione, del  decreto
del Ministero della Difesa -  Direzione  Generale  per  il  personale
militare a firma del Capo  del  III  Reparto  0061/III-7/2012  del  3
febbraio 2012, notificato in data 17  febbraio  2012,  con  il  quale
viene disposta, a decorrere dal 10 gennaio 2012, la perdita del grado
ai sensi degli artt. 866, comma  primo,  e  867,  comma  quinto,  del
decreto legislativo 15  marzo  2010,  n.  66  e,  per  l'effetto,  la
cessazione dal servizio permanente del ricorrente,  maresciallo  capo
dell'Arma dei Carabinieri, con conseguente iscrizione  d'ufficio  nel
ruolo dei militari di truppa dell'esercito italiano. 
    Il ricorrente fa presente che con sentenza n. 17364 del 3 ottobre
2006 il Tribunale di Roma  lo  riconosceva  colpevole  del  reato  di
"peculato continuato" condannandolo alla pena  di  anni  due  e  mesi
quattro  di  reclusione,   nonche'   alla   pena   accessoria   della
interdizione temporanea dai pubblici uffici  per  anni  cinque;  tale
sentenza veniva poi confermata in appello  e  diveniva  definitiva  a
seguito della sentenza della Corte di Cassazione del 16 gennaio 2012. 
    Avverso il decreto impugnato il  ricorrente  deduce  le  seguenti
censure: 
    1) Violazione e falsa applicazione del combinato disposto di  cui
all'art. 866 del d.lgs. n. 66 del 2010 ed all'art. 1 della  legge  n.
241 del 2006. Eccesso di  potere  per  mancata  considerazione  delle
circostanze di fatto e di diritto. 
    Si sostiene l'illegittimita'  dell'operato  del  Ministero  della
Difesa,  che  non  ha  inquadrato  la  norma  di  cui  all'art.   866
nell'ambito del sistema legislativo vigente il quale comprende  anche
l'art. 1 della legge n. 241/2006 che ha cancellato  completamente  la
condanna inflitta al ricorrente dal Tribunale di Roma. 
    2) Incostituzionalita' del d.lgs. n. 66 del  15  marzo  2010  per
violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione.  Violazione  della
legge di delegazione n. 246 del 28 novembre 2005, art. 14, commi 12 e
14, nonche' dell'art. 14 della legge 23 agosto 1988 n. 400. 
    Sostiene parte ricorrente che il suddetto decreto legislativo  e'
stato adottato il 15 marzo 2010, oltre il  termine  massimo  previsto
dalla legge di delegazione e per cio' stesso  in  totale  assenza  di
potere  con  conseguente  violazione  degli  artt.  76  e  77   della
Costituzione. 
    3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 866, primo comma,  del
d.lgs. n. 66 del 2010 sotto altro profilo per violazione degli  artt.
3, 4, 35 e 97  della  Costituzione,  nonche'  per  contrasto  interno
dell'ordinamento giuridico (con l'art. 9 della legge 7 febbraio  1990
n. 19 nonche' con l'art. 32-quinquies del  codice  penale  introdotto
dall'art. 5 della legge n. 97/2001). 
    Si solleva questione di legittimita' costituzionale  della  norma
di cui all'art. 866 sopracitato che, prevedendo la perdita del grado,
a seguito di condanna definitiva  non  sospesa  condizionalmente  per
reato militare o delitto non colposo con conseguente  cessazione  dal
servizio permanente «senza giudizio preliminare» ha reintrodotto  nel
nostro ordinamento giuridico una forma di automatismo  espulsivo  dal
rapporto di pubblico impiego  per  effetto  di  condanna  penale  che
comporti interdizione anche  temporanea  dai  pubblici  uffici,  piu'
volte  censurata  dalla  Corte   costituzionale   che   ha   ritenuto
incostituzionale alcune disposizioni di tal genere. 
    L'Amministrazione  intimata  si  e'  formalmente  costituita   in
giudizio. 
    Alla Camera di Consiglio del 30 maggio 2012  l'istanza  cautelare
e' stata respinta. 
    Alla pubblica udienza del 14 novembre 2012 la causa e' passata in
decisione. 
    Oggetto della presente impugnativa  e'  il  decreto  emanato  dal
Ministero della Difesa con il quale. si dispone la perdita del  grado
del ricorrente, maresciallo capo dell'Arma dei Carabinieri, ai  sensi
degli artt. 866, primo  comma,  e  867,  quinto  comma,  del  decreto
legislativo n. 66 del 2010, con conseguente cessazione  dal  servizio
permanente ed iscrizione d'ufficio nel ruolo dei militari  di  truppa
dell'Esercito italiano. 
    Con la prima censura dedotta il ricorrente lamenta la  violazione
dell'art. 866 del suddetto decreto legislativo in combinato  disposto
con l'art. 1 della legge n. 241 del 2006, in quanto la pena  inflitta
dal Tribunale penale di Roma sarebbe stata interamente condonata  dal
medesimo Tribunale per la concessione dell'indulto. 
    La doglianza non si appalesa fondata. 
    Va premesso che la norma suddetta prevede espressamente  che  «la
perdita del grado, senza giudizio disciplinare, consegue  a  condanna
definitiva,  non  condizionalmente  sospesa,  per  reato  militare  o
delitto non colposo che comporti la pena accessoria della rimozione o
della interdizione temporanea dai pubblici uffici, oppure  una  delle
pene accessorie di cui all'art. 19 comma 1, numeri 2) e 6) del codice
penale.». Discende da cio' che la perdita del grado non  puo'  essere
irrogata al militare nel caso in cui la condanna  sia  stata  sospesa
condizionalmente. Nel caso del ricorrente  la  condanna  penale  allo
stesso inflitta dal Tribunale penale di Roma, e divenuta definitiva a
seguito della sentenza della Corte di Cassazione del 10 gennaio 2013,
oltre a condannare il ricorrente alla pena della reclusione  per  due
anni e mesi quattro, dichiarava lo  stesso  interdetto  dai  pubblici
uffici per cinque anni, mentre disponeva che la pena  principale  era
interamente condonata ai sensi della legge n. 241/06. La  concessione
del beneficio dell'indulto non puo' essere certamente parificata alla
circostanza della condanna definitiva,  condizionalmente  sospesa,  a
cui non consegue  la  perdita  del  grado,  atteso  che  il  suddetto
beneficio concerne unicamente  la  pena  principale  e  non  le  pene
accessorie, per  cui  non  puo'  considerarsi  quale  causa  ostativa
all'adozione  del  provvedimento  espulsivo   cosi'   come   adottato
dall'Amministrazione della Difesa nei confronti del ricorrente. 
    Anche la seconda censura, con la quale si sostiene che il decreto
delegato n. 66 del 2010 e' stato emanato  oltre  il  termine  fissato
dalla legge di delega (48 mesi) non si appalesa fondata, considerando
che il comma 22 dell'art. 14 della legge n. 246 del 2004, cosi'  come
sostituito dalla lettera g) del comma 1 dell'art. 4  della  legge  18
giugno 2009, n. 69, prescrive che  se  il  termine  previsto  per  il
parere della Commissione cade nei  trenta  giorni  che  precedono  la
scadenza di uno dei termini previsti dai commi 14, 14-quater, 15,  18
e 18-bis, la scadenza medesima e' prorogata di  novanta  giorni,  per
cui, tenuto presente che il termine originariamente previsto  era  il
15 dicembre 2009, l'adozione del decreto n. 66/2010, avvenuta  il  15
marzo 2010, rientra nel termine, cosi' come prorogato con la suddetta
norma sopravvenuta. 
    Con  la  terza  censura  il  ricorrente  solleva   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 866, primo comma, del d.lgs. n.
66 del 2010, nella parte in cui reintroduce un meccanismo  automatico
di espulsione dal rapporto di pubblico impiego a seguito di  sentenza
penale irrevocabile di condanna,  senza  la  previa  attivazione  del
procedimento disciplinare, cosi' violando gli artt. 3,  4,  35  e  97
della Costituzione. 
    Il Collegio ritiene che la dedotta questione di costituzionalita'
sollevata dal ricorrente sia rilevante ai fini  della  decisione  del
ricorso e non sia manifestamente infondata. 
    In ordine alla rilevanza della  dedotta  questione  va  osservato
come soltanto il  suo  eventuale  accoglimento,  con  la  conseguente
caducazione della norma sottoposta al  vaglio  di  costituzionalita',
consentirebbe  a  questo  giudice  di  annullare   il   provvedimento
impugnato. 
    Va, peraltro, ribadito quanto piu' volte  affermato  dal  giudice
delle leggi in ordine alla illegittimita' costituzionale di una norma
che prevede  una  automatica  cessazione  del  rapporto  di  pubblico
impiego nel caso della emanazione di  una  sentenza  irrevocabile  di
condanna   senza   che    sia    possibile    valutare    da    parte
dell'Amministrazione procedente la gravita' del  reato  commesso,  la
sua  rilevanza  rispetto  alla  attivita'  svolta  in  concreto   dal
dipendente, ed il vantaggio che possa derivare per  l'Amministrazione
dall'eventuale  mantenimento  in  servizio  dello  stesso.   Premesso
inoltre che la destituzione automatica mal si concilia con l'esigenza
di tutela del  diritto  al  lavoro,  costituzionalmente  riconosciuta
dagli artt. 4 e 35 della Costituzione, va  osservato  come  l'art.  9
della legge 7 febbraio 1990 n. 19 abbia espressamente  stabilito  che
«il pubblico dipendente non  puo'  essere  destituito  di  diritto  a
seguito di condanna penale. E' abrogata ogni  contraria  disposizione
di legge. La destituzione puo' essere sempre inflitta  all'esito  del
procedimento disciplinare». Tale norma  di  principio  non  puo'  non
trovare applicazione anche nei confronti del pubblico dipendente  che
presta servizio nelle forze armate dello Stato, per cui  l'estinzione
del rapporto di lavoro o di  impiego,  anche  nel  caso  di  condanna
penale irrevocabile, puo' essere pronunciata solo  a  seguito  di  un
procedimento disciplinare nel rispetto delle garanzie del diritto  di
difesa del pubblico dipendente. 
    Sulla base delle suesposte  considerazioni  il  Collegio  ritiene
necessario la sospensione del giudizio e  la  rimessione  degli  atti
alla Corte costituzionale affinche' si pronunci sulla questione.